Genepì

Il noto liquore, simbolo dell’arco alpino occidentale, da tempo allieta i lunghi inverni col suo corroborante aroma, mentre la ricerca farmacologica sui principi attivi della pianta rivela potenzialità insospettate e sempre più  interessanti

Ancora una curva. Sollevati, intravediamo l’agognata meta, il nostro rifugio alpino, dove fra poco verremo accolti dal tepore di una stufa che cancellerà il ricordo del gelo, da ore nostro fedele compagno di escursione. Il fiato, quasi cristallizzato dalla gelida morsa invernale, spinge ad affrettare il passo sul sentiero innevato. Con un guizzo finale  finalmente entriamo. Il bisogno di ristorare le membra intirizzite dal freddo si traduce in una rapida richiesta. Un bicchierino di genepì, per favore! Ogni sorso del cristallino liquido giallo-verde, ci infonde una piacevolissima sensazione di calore che corrobora e dona nuova energia al corpo stanco. Deve essere per questo che il noto liquore si è guadagnato l’appellativo di “ginseng alpino”, facendosi apprezzare, oltre che per le già note virtù digestive, antinfiammatorie e antisettiche, anche per quelle toniche.

In qualsiasi modo si voglia, piacere e benessere sono assicurati: liscio è tonico e digestivo, on the rocks o con seltz è ottimo e dissetante, caldo, preparato come grog, è energetico e confortante. Un sapore unico, tipicamente alpino, le cui inconfondibili e particolarissime note, amare ed aromatiche, ci riportano all’asprezza e alla maestosità delle cime su cui vivono le piante da cui si ricava. Genepì o Génépy infatti, è il nome comune di diverse specie di piante aromatiche del genere Artemisia, della famiglia delle Asteracee; crescono perlopiù sulle Alpi centro-occidentali e a quote molto elevate (da 1.800 a 2.800 metri), in luoghi difficilmente accessibili, come nelle fessure delle rocce, nei macereti, sui  terreni morenici, ai piedi dei ghiacciai..

Queste pianticelle, alta una decina di centimetri, spuntano a primavera, si arricchiscono di un inconfondibile aroma, fioriscono in estate e, infine, essendo perenni, attendono sotto la neve che passi il lungo inverno delle alte quote. La nomenclatura è un po’ tormentata, confusione dovuta anche ai numerosi sinonimi, maturati nella consuetudine popolare. Il più apprezzato è l’Artemisia genepi Weber (o A. spicata Wulfen) detto genepì “maschio”, che si distingue dagli altri per la disposizione ravvicinata dei vari capolini fiorali, che assumono il tipico aspetto di spiga compatta, grigio-gialla. Il profumo, inconfondibile, è di gran lunga il più aromatico tre le specie di genepì. Possiede infatti la più alta concentrazione di principi attivi, che esplicano nell’uomo una potente azione neurotonica sulle vie digestive. E’ però diventato talmente raro che il liquore è spesso confezionato con altre specie come L’ A. umbelliformis Lam. (o A. mutellina Vill o A. laxa) detto genepì “femmina” o bianco, rivelatasi anche adattabile alla coltivazione e l’ A. glacialis L., chiamata anche genepì nero.  Per quanto riguarda la catena appenninica è presente nel tratto abruzzese, dove si raccoglie la specie A. petrosa (Baumg.) Jan.

Il nome del genere, secondo alcuni autori, è dedicato ad Artemisia, dea protettrice delle piante medicinali, secondo altri deriva dal greco artemés, ovvero sano, per le proprietà medicinali che alcune piante di questo genere posseggono, oppure alla dea Artemide. L’epiteto specifico invece deriva dal francese “génépy”, termine generico che gli abitanti delle regioni montane hanno dato a piante aromatiche delle Alpi.

La nostra pianta sembra in grado di soddisfare i bisogni tanto degli uomini quanto degli animali che vivono nel suo stesso ambiente alpino: al genepì infatti, molto apprezzato dai camosci che lo brucano, venne attribuito il potere di guarire tutti i malanni da raffreddamento, dai raffreddori alle influenze, dalla pleurite ai geloni,.

genepiGli antichi infatti, osservando l’aspetto e l’ecologia della pianta, secondo l’antica dottrina delle Segnature, ne dedussero l’impiego: la finissima e fitta peluria, adattamento che gli permette di sopravvivere al gelo e che gli regala il tipico colore grigio sericeo, li spinsero a pensare che potesse essere il rimedio elettivo per i danni da freddo, mentre le quote proibitive a cui vive li indussero ad utilizzare l’infuso contro il mal di montagna.

Anche il famoso botanico torinese, Carlo Allioni, nel suo Rariorum Pedemontii Stirpium, del 1755, lo decantava per le stesse virtù: “assenzio alpino, chiamato dalle genti alpine col termine di Genepi, serve a molti morbi e, promuovendo la sudorazione, i nostri medici lo usano con successo in tutti quelli che necessitano di un’esalazione sudorifera”.

Il suo aroma ne giustificò l’impiego anche come digestivo e persino come cicatrizzante e disinfettante per uso esterno, in caso di tagli e  ferite, grazie alla presenza di oli essenziali antisettici. Data la rarità e la protezione che ne vietò la raccolta allo stato spontaneo, l’uso medicinale è stato poi sostituito da piante più comuni e facilmente ritrovabili.

Attualmente anche la moderna farmacologia si è mostrata interessata alla pianta, validando la forte attività antinfiammatoria, simile ad alcuni derivati cortisonici, nonchè quella gastroprotettiva dei principi attivi che si trovano nelle sommità fiorite. In Corea per esempio, esiste già un farmaco a base di tali sostanze, indicato proprio per prevenire e trattare l’ulcera gastrica, ma anche in Italia si stanno valutando preparazioni farmaceutiche per scopi analoghi.

La ricetta del liquore invece nasce secoli fa, quando gli abitanti delle Alpi decisero di sfruttare le proprietà benefiche della pianta mettendola in infusione nell’alcool. La sua diffusione inizia però solo nel 1800, quando laboratori artigiani e distillerie iniziarono a produrlo in varie valli.

Curiosi annedoti storico-letterari costellano la vita dell’aromatico liquore: De Amicis, nel 1883, nel suo “Alle porte di Italia”, dopo averlo assaggiato rimase notevolmente colpito dalle sue proprietà digestive che così descrisse: “un liquore di fiori di prato che farebbe digerire una bomba lessa”. Il celebre Jean-Jacques Rousseau invece, nel suo “Les confessions”, descrive la morte del povero giardiniere Claude Anet, il quale, proprio inerpicandosi sui pendii alpini, nello sforzo di trovare e raccogliere la rara pianta, sudò così tanto da contrarre una pleurite letale che, sfortunatamente, neppure il genepì, considerato allora elettivo giusto per tal malanno, potè curare.

Contesa tra piacere del palato e virtù benefiche, la fama del liquore crebbe così tanto che presto la specie allo stato spontaneo non fu più sufficiente e, per sopperire alla sempre maggiore difficoltà nel reperirla, unitamente al divieto o alla limitazione alla raccolta, i valligiani dovettero trovare un modo per coltivarla. Scoprirono così che A. umbelliformis o mutellina era quella che meglio si adattava al territorio, diventando così dei veri specialisti in questa difficile coltura. La stessa che, oggi, offre un’occasione di integrazione del reddito degna di un certo rilievo, proprio in territori marginali e altrimenti spopolati.

Nelle valli delle province di Cuneo e di Torino, a partire dagli anni ’60, si coltivano infatti, a quote relativamente basse (1.900 – 2.000 m.slm), alcuni ecotipi di questa specie, adattasi rispetto ai conspecifici spontanei, che vegetano invece a quote più elevate.

Nei liquorifici, i metodi di lavorazione sono sempre quelli di una volta, quando si lavorava soltanto con il genepy spontaneo: l’estrazione dei principi attivi contenuti nella pianta può avvenire mediante infusione o sospensione. Col primo le piante si pongono all’interno di una soluzione idroalcolica in contenitori di acciaio inox e qui sono lasciate in infusione per 40-50 giorni. L’infuso ottenuto viene torchiato ed aggiunto ad una miscela di acqua e zucchero, poi si lascia stagionare. Si verifica così una spontanea sedimentazione delle parti insolubili e, dopo varie filtrazioni, si ha un liquido dalla perfetta brillantezza. Il prodotto finito e fatto con accuratezza si riconosce da queste caratteristiche: colore cristallino, con riflessi che variano dal giallo tenue al verde smeraldo e gusto secco ed allo stesso tempo fresco, che solo questa impareggiabile erba può trasmettere. Se invece vi capita di vedere un genepì incolore significa che è stato ottenuto con un altro metodo, di uguale qualità, detto “per sospensione”. In questo caso le piantine sono collocate su apposite griglie tenute sospese sulla soluzione stessa, all’interno di contenitori chiusi, così l’alcol si satura delle componenti aromatiche delle erbe. Questa modalità consente di estrarre le componenti volatili, ma non le componenti amare e la clorofilla, per cui la tintura ottenuta si presenta limpida e incolore. Questa tecnica di estrazione è più lunga e il liquore finito necessita di un tempo di “invecchiamento” che può arrivare anche a 6 mesi, ma si distingue per la sua purezza.

Il “vero genepy” comunque, prodotto secondo le ricette originali, non ha vita facile, considerando la concorrenza sleale dei prodotti che portano immeritatamente la stessa etichetta. Allo scopo di tutelare uno dei più tradizionali prodotti della nostra cultura alpina, nel 2002 è nata, grazie all’appoggio della Regione Piemonte e l’Assessorato alla Montagna, l’Associazione per la Tutela e la Valorizzazione del Genepì delle Valli Occitane Piemontesi”, creando il marchio “Genepy Occitan, Alpi del Piemonte”.

L’etichetta, che ha recentemente ha ricevuto il riconoscimento europeo, stimola i produttori del liquore a proseguire nei metodi tradizionali di produzione, sulla base di specifici disciplinari. Al contempo, tramite una collaborazione tra Università e Regione Piemonte è stato anche attivato alcuni anni fa il “Progetto Genepy”, per studiare e promuovere sempre più la preziosa pianta.

Una tutela doverosa affinché l’indomito “Spirito delle Alpi”, che questa pianta incarna, possa continuare ad essere degno ambasciatore della nostra cultura alpina.

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One Comment

  1. 1-27-2013

    bello questo artiolo sul genepi’

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